L’Iran è diventato un nodo cruciale nella rete globale del Bitcoin mining a causa della sua posizione geopolitica strategica e del tentativo di aggirare le sanzioni internazionali. Tuttavia, ciò che inizialmente è stato ideato come una forma di resistenza finanziaria si è trasformato in un boomerang devastante per l’economia interna e, particolarmente, per la rete elettrica del paese.
Dopo la ripresa delle sanzioni USA nel 2018, Teheran ha legalizzato il mining di criptovalute come mezzo per ottenere valuta forte, operando al di fuori del sistema bancario globale. L’energia abbondante e sussidiata veniva convertita in Bitcoin, che poi veniva venduto per importare beni o finanziare operazioni strategiche. Secondo stime, nel 2021, fino al 4,5% del mining globale si concentrava in Iran.
I margini di profitto erano enormi, con un costo di produzione di circa 1.300 dollari per Bitcoin a fronte di un prezzo di mercato tra i 30.000 e i 40.000 dollari. Questo attrasse imprenditori e entità statali, principalmente i Guardiani della Rivoluzione (IRGC), trasformando il mining in un’industria parastatale opaca.
Le tensioni geopolitiche hanno esacerbato la situazione. L’effetto è stato un sovraccarico sulla rete elettrica, specialmente durante la crisi energetica del 2024, segnata da blackout estesi. In molti casi, le mining farm legate al regime restavano operative nonostante l’ordine di spegnimento.
Nel contesto di una guerra economica, dove le esportazioni petrolifere sono limitate, trasformare gas e greggio in hashpower per finanziare attività parallele è diventata una priorità strategica per Teheran. Tuttavia, questa strategia ha un costo elevatissimo per la popolazione, che soffre blackout continui. Il malcontento è esploso nei social, dove slogan contro i ‘cartelli crypto’ del regime diventano virali.
La crisi energetica dell’inverno 2024-25 ha ulteriormente aggravato la situazione, con blackout diffusi a causa della scarsità di gas naturale, richiesto anche dalle mining farm. Nonostante le richieste di spegnimento, molti siti legati all’IRGC sono rimasti attivi, alimentando la crisi di fiducia nella gestione energetica del paese.
Questa strategia, concepita come risposta creativa alle sanzioni, ora rischia di minare le fondamenta economiche dello stesso Iran, incanalando risorse preziose verso il mining, piuttosto che distribuirle equamente tra la popolazione.